
Il pilota-cosmonauta Michail Kornienko ha trascorso 516 giorni nello spazio, cioè circa un anno e mezzo. Ha raccontato come aspettare 13 anni per il suo primo volo e come è riuscito ad avere “una comunicazione al cento per cento” in orbita con il resto dell’equipaggio. Non senza l’aiuto dell’inglese, ovviamente.
Il volo procede bene
La prima volta che sono andato nello spazio è stato nel 2010, la seconda nel 2015. La prima missione è durata sei mesi, la seconda 340 giorni.
È un paradosso, ma già la prima volta non ho avuto molta paura. Perché entrare nel razzo, e poi nella nave, assicurarsi con le cinghie, controllare l’ermeticità, e così via è tutto lavoro che distrae. E poi mettono la musica che scegliamo, abbiamo circa 30 minuti prima del lancio. Ti siedi lì come in un simulatore, non ti sembra nemmeno che sia un volo reale: ti sei semplicemente seduto ancora una volta nel simulatore (e ci ho passato un bel pò di tempo). L’unica differenza, ovviamente, è che ti rendi conto che gli scherzi sono finiti, stai per partire davvero.
Il lancio in sé non mi ha causato particolari problemi emotivi. Comincia a fare effetto quando si accendono i motori, capisco dove siamo e dove stiamo andando. E poi 526 secondi dopo, bang, e tutto è volato via.
Inoltre, non sei solo sulla nave. Entrambe le volte, eravamo in tre. La prima volta con Alexander Skvortsov e l’americana Tracy Caldwell Dyson. E la seconda volta con Gennady Padalka e l’americano Scott Kelly.

“La lingua inglese è la lingua principale nella stazione spaziale”
C’è una lingua internazionale, l’esperanto, che un tempo si cercava di rendere una lingua comune per tutti. Così, per la maggior parte del tempo abbiamo comunicato nella nostra lingua internazionale – il runglish cosmico.
Se Tracy mi chiedeva qualcosa, non avevo problemi, potevo sempre capirla. E viceversa: le chiedo aiuto, le faccio capire che non riesco a fare qualcosa, non devo nemmeno spiegarlo particolarmente bene. È un conglomerato di istruzione russa, americana e tecnica. Il risultato è una comunicazione al cento per cento.
Un ingegnere capirà sempre un ingegnere. Scott sapeva a malapena il russo, ma non avevamo problemi a comunicare, perché lui è un tecnico e un pilota, proprio come me. E quando capisco che ha bisogno di aiuto, non ci sono domande, ci capiamo senza parole. Se un dado deve essere stretto, nessuno deve spiegare cosa fare. Soprattutto perché abbiamo preparato il volo insieme per tre anni.

Avevamo il “venerdì” sull’astronave: si sa, il venerdì è il venerdì. Non sto dicendo che bevevamo, ma era una festa per tutti tanto che ognuno portava la propria scorta. In questi momenti a volte ho insegnato ai ragazzi delle parole russe, ma meglio che non vi dico quali! L’hanno chiesto loro! In generale, a livello di comunicazione quotidiana e tecnica l’equipaggio non ha avuto alcun problema.
Per quanto riguarda l’inglese, l’ho studiato a lungo. Prima a scuola, poi all’università, ma soprattutto ho dovuto studiare la lingua al Centro di Addestramento Cosmonauti. Questo è necessario, perché l’inglese è la lingua principale nella stazione spaziale.
Ci sono diversi livelli di inglese richiesti per gli astronauti: da Intermediate a Superior. Ma alcuni termini tecnici, per esempio, non sono sempre adeguatamente compresi dai traduttori che ci aiutano. Ad esempio, traducono bus 2353 come “numero di bus 2353”, mentre bus è in realtà “bus di alimentazione”.
Mamma, voglio essere un astronauta
Tutti i ragazzi e le ragazze della mia generazione degli anni sessanta – quando Gagarin volò e iniziò l’era dell’esplorazione spaziale – credevano che in futuro ci sarebbero stati alberi fioriti di melo su Marte. La mia era una storia d’amore nata dalla voglia di conoscere lo spazio, era una vera e propria ossessione. Nel 1965, ho visto per la prima volta il film “La nebulosa di Andromeda”, mi ha fatto un’impressione fantastica. Ora la gente probabilmente lo prende in giro, ma comunque… Un passo alla volta, mi sono avvicinato allo spazio.
Mio padre era a servizio della squadra di ricerca e salvataggio dei primi cosmonauti, era un pilota di elicottero. Mio padre portava a casa dei paracadute usati durante i voli. Erano usa e getta, fatti di un tessuto arancione molto bello. La mamma ne faceva delle gonne. Per me era un miracolo che un’astronave stesse atterrando proprio con questo paracadute!
Da tutto questo si è formata la convinzione che dovevo andare alla scuola di volo. Ma, ahimè, non mi hanno accettato lì a causa della mia non perfetta salute. C’era molta concorrenza a quel tempo: naturalmente, mi hanno scartato. Anche se mio padre era morto, non mi hanno fatto alcuno sconto.

Avevo ancora questo desiderio, ho capito che solo io ero artefice del mio destino. Dato che non mi hanno accettato alla scuola di volo, mi sono arruolato nell’esercito. Sono stato mandato dall’ufficio di arruolamento militare a seguire un corso sulle operazioni di volo. Neanche questo è stato abbastanza. Sono andato dal mio superiore e gli ho detto: “Con tutto il rispetto, vado nei paracadutisti. Non mi interessa il vostro corso sulle operazioni di volo”. Sono stato altri due anni nelle forze aeree (720 giorni, per essere esatti) e poi ho fatto altre importanti esperienze. Ho frequentato l’Istituto dell’Aviazione di Mosca come ingegnere meccanico e ho lavorato assiduamente nella polizia. Ecco quello che è successo.
La strada per andare nello spazio era ancora lunga. Per queste cose ci vuole molto tempo. Poco tempo ci vuole per prendere un biglietto all’aeroporto e volare. A quel tempo era tutto piuttosto complicato. Erano gli anni ’90, l’economia sovietica era ancora pianificata. E chi ero io? Un semplice ragazzino, spuntato da qualche parte.
Ho fatto una visita medica ogni anno per circa sette o otto anni. E non c’erano ostacoli insormontabili. Il sistema non ha preso uno che non faceva parte del sistema, tutto qui. Succede. Ma non mi sento offeso. Ci sono due istituti: l’Istituto di problemi medici e biologici dell’Accademia russa delle scienze e il Centro di formazione dei cosmonauti. Da lì sono stati selezionati i principali candidati per il volo. Naturalmente, sono stati trattati meglio di me. Io sono entrato in questo sistema da solo, non è stato molto facile per me.
Spesso mi viene chiesto quale sia la parte più difficile dell’essere un astronauta. La mia risposta è “aspettare”. Ho aspettato 13 anni per andare nello spazio, dal momento in cui sono entrato nello squadrone al primo lancio, anche se il mio compagno è partito due anni prima di me. E’ stato difficile, naturalmente. Non tutti riescono a sopportare questo.
“È impossibile rimanere nello spazio senza che accadano avvenimenti curiosi”
La ISS ha una macchina – IRED (Interim Resistive Exercise Device), un simulatore per tutti i gruppi muscolari. Per non annoiarsi completamente mentre si è seduti lì, mettono su un film o della musica. Ho sempre chiesto agli psicologi di poter ascoltare il suono della pioggia. Allora, c’è il suono della pioggia, il tuono, Scott entra e dice: “Dove l’hai preso?” Gli rispondo: “L’ho chiesto, qui possiamo scegliere quello che vogliamo”. “Me lo fai sentire?” chiede. “Certo.” E subito dopo ha diffuso il suono della pioggia su tutto il nostro modulo. O meglio, il modulo non era nostro, era americano.
Così che abbiamo ottenuto il suono della pioggia. In volo non hai molti suoni a disposizione, mentre qui alla stazione puoi sentire i suoni della natura: il bosco, la pioggia, gli uccelli. Scott faceva ascoltare quei suoni con tutti gli altoparlanti che aveva, e mi piaceva molto. Ti siedi nell’abitacolo e senti la pioggia, ed è come se fossi a casa.

Per far fronte alla nostalgia, si può chiamare casa, contattare il Centro di Controllo Missione. Ci sono molte cose che ti mettono in comunicazione. È una cosa molto utile dal punto di vista psicologico.
Tuttavia, si comunica con la Terra con un ritardo temporale di circa due secondi. La stazione si muove a otto chilometri al secondo e si muove tra i vari satelliti. Bisogna solo abituarsi al ritardo. Dicevo a mia moglie: “Dimmi qualcosa e aspetta un pò per ascoltare la mia risposta”. Ma non ha mai fatto cio che le ho detto.
Ritorno sulla Terra
Il periodo di riabilitazione dopo essere stati nello spazio è molto difficile. La difficoltà principale è il sistema locomotorio. Posso tranquillamente uscire dalla nave spaziale, fare una passeggiata, ma quando giro la testa di lato, tutto gira e cado immediatamente. Ecco perché non mi lasciano andare da nessuna parte in questo periodo.
Riprendersi dopo un volo è una cosa individuale. Il periodo durante il quale non puoi camminare, non puoi fare nulla, dura circa due settimane. Poi arriva il periodo della ripresa vera e propria. Ma, ad essere onesti, l’organismo non si riprende totalmente dopo un volo spaziale.